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* il gioco del nonno
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sibilla
Dio maturo
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MessaggioInviato: 25 Mag 2010 18:50    Oggetto: Rispondi citando

E se fosse stato un picco di autocritica?
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MessaggioInviato: 25 Mag 2010 18:58    Oggetto: Rispondi citando

danielegr ha scritto:
(*) ma è possibile che nessuno fra quelli che avevano instaurato il movimento Balilla si sia reso conto che, risalendo al significato della parola latina “lupa” dalla quale deriva, ad esempio "lupanare", non fosse poi così bello essere “figli della lupa”?

Senti come la storia recente (sono passati davvero pochi anni anche se sembrano 2.000) è ancora viva!
Molto divertente la riflessione sull'origine del termine "figli della lupa". Pare infatti che Romolo e Remo fossero figli di una prostituta o fossero stati allevati da una prostituta, appunto, una "lupa".

Che i figli della lupa fossero figli del lupanare, cioè figli delle prostitute che lavoravano nel lupanare era possibile e non certo e non solo per eventuali accostamenti pelvici realizzati per il soldo e non per legittimo dovere coniugale.
Del resto la forma e la struttura ella famiglia così come la concepiamo è diversa da quella praticata e imposta duemila anni fa. La famiglia è un prodotto culturale non naturale o divino. Ogni epoca e cultura ha avuto la sua forma di famiglia.

L'antica arte della prostituzione, considerata dai più, spregevole eppure molto frequentata segretamente proprio da chi la disprezzava pubblicamente, ha regalato al mondo tanti di quegli individui (fa i quali, chissà, forse anche qualche antenato del Duce?) che nessuno può immaginare. E molti di questi sono antenati comuni a tutti noi. Fra questi sono nati assassini, Papi, artisti, Santi, geni assoluti e idioti di ogni genere, persone meritevoli e luridi individui, insomma proprio di tutto.
Compresi noi.
E' solo l'impossibilità di risalire all'origine di ogni nascita che consente di tirarsi fuori (almeno così ci si può illudere che sia).
Era un po' come dire: "di mamma ce n'è una sola, ecco perché siamo tutti fratelli".
Sono i padri che invece sono diversi.

Grazie danielegr, grazie per la storia che la tua memoria personale ha conservato.
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MessaggioInviato: 26 Mag 2010 12:19    Oggetto: Rispondi citando

Rido perché l'episodio è divertente... a pensarci adesso.

Dì la verità, l'altro giorno eri in piazza San Babila? Smile

Citazione:
un grande sciame apparso dal nulla alle due e mezza del pomeriggio


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danielegr
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MessaggioInviato: 28 Mag 2010 13:50    Oggetto: Rispondi citando

Questa non è una storia, sono più che altro dei ricordi sparsi di quando ero proprio piccolino. Abitavo a Milano, in via Parini ed erano incominciati i bombardamenti a tappeto. Quindi doveva essere l'estate o l'autunno del 1942. Avevo quasi sei anni e, avendo passato le vacanze in Umbria presso una mia zia che era maestra elementare avevo imparato a leggere e scrivere. Avrei dovuto incominciare, vista l'età, la prima elementare, ma avrei passato un anno a rimescolare cose che sapevo già, quindi con il rischio di considerare inutile e noiosa la scuola. Si decise quindi di provare a fare un esame di ammissione direttamente alla classe successiva, esame che evidentemente superai, visto che mi iscrissero alla seconda elementare, anche se assolutamente di quell'esame non ho il minimo ricordo.
C'era stato in quei giorni un bombardamento particolarmente pesante: notti passate in “rifugio”, vale a dire nella cantina dello stabile, rinforzata con qualche travetto e arredata con qualche panca: da quello che vedo curiosando su Web dovrebbe essere stata la notte tra il 24 e il 25 Ottobre 1942. Io, come tutti gli altri bambini della mia età, non mi facevo troppi problemi: a quell'età si dorme anche in piedi, figurarsi su una panca, ma immagino che per gli adulti siano state delle notti tragiche. Ricordo che, nei momenti nei quali ancora ero sveglio, si sentiva il fischio della bomba che cadeva, un rumore indimenticabile per chi l'ha sentito, e poi lo scoppio. In base all'intensità dello scoppio si valutava la distanza alla quale era caduta la bomba e si pensava: ”questa volta è andata bene, è esplosa un po' più in là”. “Più in là”, naturalmente, voleva dire che era caduta sulla testa di qualcun altro, magari di un parente o di un amico, ma in quei momenti non ti importava: l'importante era che non avesse colpito te. Per la solidarietà, la compassione, l'assistenza ci sarebbe stato tempo dopo: adesso c'era spazio solo per l'egoismo e per l'istinto di sopravvivenza.
Per inciso, sentire il rombo di un aereo voleva dire quasi sempre che quell'aereo avrebbe sganciato delle bombe. Fino a pochi anni fa quel rumore mi faceva ancora paura e mi veniva da incassare la testa nelle spalle.
Il tram passava in viale Monte Santo, sulla Circonvallazione, e lì fermavano diverse linee all'angolo con la via Galilei, fra le quali il 29-30. Poco dopo la notte dei bombardamenti eravamo andati a quella fermata, probabilmente perché proprio lì c'era una Farmacia presso la quale era installata una bilancia pesapersone (non era ancora uso comune averne una in casa). Grande fu la mia sorpresa nel vedere delle striscette messe di traverso sulla palina della fermata, in corrispondenza di alcune linee, con la scritta “Sorpresa”. Nella mia ingenuità pensavo che quelle linee fossero state un regalo, una sorpresa appunto, fatta... a chi? questo non lo sapevo, ma mi immaginavo proprio che qualcuno quella mattina avesse trovato quelle linee nuove e si fosse meravigliato e profuso in ringraziamenti “ma che bello, ma non dovevate disturbarvi così, come sono contento...” (ricordate che avevo appena sei anni e avevo da poco incominciato a leggere e scrivere...).
In effetti, come è più logico, c'era scritto “soppressa”, parola che ancora non conoscevo e questo spiega il mio errore di lettura. L'ATM aveva avuto alcune vetture bombardate e non era in grado di provvedere immediatamente alle riparazioni. Era stato necessario sopprimere alcune linee per poter garantire almeno un livello minimo di servizio.
Ricordo anche che andando a quella fermata passammo da quello che allora si chiamava Piazzale Fiume e che adesso è Piazza della Repubblica: c'erano due taxi bruciati. colpiti, mi dissero, da spezzoni incendiari. Spero proprio che fossero stati vuoti.
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MessaggioInviato: 11 Giu 2010 17:45    Oggetto: Rispondi citando

Un altro ricordo: l'estate, e, soprattutto l'estate al mare. Beh, è normale andare in spiaggia muniti di telefonino, oppure per quelli come me che hanno l'idiosincrasia per il telefonino, almeno almeno una macchinetta digitale. E lì, in spiaggia vai con le foto: ai bambini, alla moglie, alla fidanzata, al marito, ai nonni, a tutti insomma. Non dimenticando, naturalmente una foto al mare, un' altra alle cabine, no, questa no, è venuta mossa. Beh, ne facciamo un'altra, tanto con la digitale non ci sono problemi. Questo oggi, nell'anno di grazia 2010. Ma negli anni 1940 -1950 – 1960 cosa succedeva?
In città c'erano dei fotografi ambulanti. Avevano una macchina montata su un treppiede: in pratica un cubo dentro al quale, oltre alla normale dotazione di una macchina fotografica, come lente, diaframma, otturatore ecc. c'era la scorta di carta sensibile, gli acidi per lo sviluppo, le lastre per i negativi (non credo che usassero le pellicole: probabilmente erano proprio le lastre di vetro sulle quali era spalmata l'emulsione sensibile). Naturalmente esponevano, come se fosse una vetrina, una mostro dei loro migliori lavoro. Sul dietro della macchina c'era un lungo panno nero, che serviva al fotografo a creare una specie di camera oscura. Infilava la testa sotto il panno nel quale c'erano un paio di buchi per le mani e riusciva a creare uno spazio buio nel quale poter sviluppare e stampare le foto.







Il fotografo spesso era appostato in qualche punto fisso: a Milano ne ricordo uno all'uscita del Castello Sforzesco. Ed è proprio lì che abbiamo fatto questa foto: direi che siamo nel 1949 o 1950 (io sono quello che malgrado il cappotto – quindi era inverno – portava i pantaloncini corti, come era uso per i ragazzi in quegli anni).



Poi c'erano gli altri, diciamo i “paparazzi” dell'epoca: giravano armati di una macchina tipo Leika per le vie più trafficate e quando vedevano un soggetto interessante (due fidanzati che si tenevano per mano, i genitori con i bambini, qualsiasi cosa che faceva presumere che il soggetto avrebbe potuto essere interessato ad immortalarlo) scattavano a tradimento una o più foto. Poi si avvicinavano e consegnavano un biglietto (nella mia memoria, chissà perché, il biglietto è giallo-senape) con la solita frase “siete stati immortalati in un atteggiamento naturale e spontaneo e bla bla bla”, con l'invito, se interessati, a ritirare le foto dopo due giorni presso il Premiato Studio Fotografico, già fornitore della Real Casa e di chissà chi altro, in via Tale al numero Tal'altro.
Mi sono lasciato prendere la mano... in effetti avrei voluto parlare solo del “fotografo da spiaggia”. Oggi sulle spiagge circolano i venditori di ammennicoli e cianfrusaglie varie, di borse contraffatte o di improbabili “pareo”. In quegli anni invece circolavano i “fotografi da spiaggia” che puntavano soprattutto le famiglie con bambini piccoli (vuoi non fare la foto a quel bambinetto tanto carino che gioca con la sabbia? Ma certo così la mandiamo anche alla zia, alla nonna ecc. ecc.)
Il procedimento era comunque lo stesso del fotografo di città: dopo un paio di giorni andavi allo studio fotografico e ritiravi la foto del tuo caro pargoletto. A volte lo stesso fotografo ripassava e ti consegnava le foto.
Niente di anomalo quindi, salvo i pensieri di un bambinetto quale ero io, che non riusciva a capacitarsi di come su quel foglietto giallo-senape potessero essere condensati tutte quelle figure che poi come per magia apparivano sulle foto.
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MessaggioInviato: 12 Giu 2010 15:25    Oggetto: Rispondi citando

A me da bambino (è un ricordo strano) è successa una cosa davvero bizzarra: io ero piccolo e tutti gli altri erano grandi.





























Com'è che non capivano un cazzo lo stesso?
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MessaggioInviato: 19 Giu 2010 09:15    Oggetto: Rispondi citando

Questa non è proprio da nonni, nemmeno una ventina di anni fà:

Era l'anno 1991. Quell'anno avevamo deciso per le ferie “lunghe”, invece di limitarci alle solite due settimane. Quindi il programma era: Spagna per la Cornice Cantabrica, poi Portogallo e ritorno attraverso il Sud della Spagna, con magari una puntata a Granada. Tutto bene fino quasi alla fine, salvo una disavventura nella cornice Cantabrica: dopo aver cenato nel paesino di Ortiguera ci avviamo verso la macchina, scherzando fra noi tre (mia moglie, la figlia e io). Io, tutto allegro con la mia maglietta senza maniche e i pantaloncini corti, per fare lo spiritoso, salgo su un muretto che costeggia un fossato pieno di ortiche (il nome al paese non l'avevano dato a caso...). Complice il vino spagnolo metto un piede in fallo e buuum!! proprio in mezzo a quelle ortiche giganti!! Mi venne naturalmente un bell'eritema sulle gambe e dovetti ricorrere a pomate anti istaminiche per rimettermi in sesto. Bellissimo il Portogallo, peccato che lo stile Manuelino predominante un po' in tutta l'architettura, in particolare in quella ecclesiastica, dopo un po' stanchi: troppo ridondante di dorature, stucchi, fregi e arzigogoli di vario genere. Però il Portogallo si riscatta con gli “azuleios”, con il caffè che quasi non fa rimpiangere quello italiano, con un prosciutto di primissima qualità, con Lisbona, i suoi tram e i suoi quartieri vecchi, il Barrio e con tantissime altre cose. Avevamo anche tentato di fare il bagno nell'Atlantico. Ci eravamo anche riusciti, ma l'acqua era troppo fredda, un minuto di bagno e fuori “barbelando” (espressione lombarda che vuol dire pressappoco “battere i denti”).
Stanchi del “Manuelino” scendiamo ancora e arriviamo in Algarve: l'acqua era più calda e qualche giorno di mare siamo riusciti a farlo. Ci eravamo fermati nel paese di Lagos, niente di eccezionale ma con un mare da favola. C'erano anche diversi ristoranti, tutti buoni, meno uno. A quell'uno siamo capitati un giorno e il risultato s'è visto il giorno dopo: mal di pancia per tutti e tre. Decidiamo di partire per la Spagna: ci terremmo proprio a visitare Granada e l'Alhambra e il mal di pancia è quasi passato. Quindi partiamo senza grandi preoccupazioni, anzi, visto il gran caldo rimaniamo in costume da bagno. Arriviamo verso sera a una città spagnola: Huelva. Non abbiamo la minima idea di dove trovare un albergo e io incomincio ad essere stanco e a sentire che il mal di pancia non è poi passato del tutto. Chiediamo quindi informazioni a un passante. Questi sembra (e sottolineo il “sembra”) gentilissimo e si offre addirittura di accompagnarci. Lo facciamo salire in macchina quindi e ci indica la strada per un albergo che sembra buono e in effetti lo era. Sono troppo stanco per scaricare la macchina e rimanendo in costume da bagno mi fiondo subito a letto, mi pare anche di aver saltato la cena. Avrei dovuto mettermi in sospetto vedendo che nell'atrio dell'albergo c'era una guardia giurata armata, però questo particolare al momento non mi aveva particolarmente colpito, anzi, l'avevo preso come una maggior protezione per i clienti.
Per farla breve, a metà notte ci suona il telefono in camera: con un misto di spagnolo, italiano e sa Dio che altra lingua ci informa che una macchina con targa italiana (che sia la nostra?) parcheggiata all'esterno dell'albergo è stata sfondata e svuotata.
Naturalmente ci precipitiamo fuori, è proprio la nostra!! immaginiamo che sia stato il così cortese passante a fare il colpo o a segnalarlo ai suoi “amici”, ma naturalmente non abbiamo nessuna prova. I ladri hanno sfondato il deflettore posteriore destro e da lì hanno aperto la macchina e il baule portando via tutto quello che c'era: vestiti, valigie, il borsello con alcuni documenti (non tutti, per fortuna), rullini delle foto, regali e souvenir che avevamo comperato un po' in tutta la penisola Iberica. Ci troviamo quindi, intorno alle due di notte, praticamente in mutande (meno male che i soldi e la carta di credito le avevo tenute nel marsupio che tenevo allacciato in vita e quindi si sono salvati) con la macchina che non era più possibile chiudere e avendo perso bagagli e quant'altro. A quell'ora potevamo fare poco: abbiamo trovato un garage aperto e abbiamo ricoverato la macchina e siamo tornati a dormire. La mattina dopo, con i fumi che ci uscivano dal naso andiamo a denunciare il furto e lì ci hanno spiegato il motivo della guardia armata nell'albergo. Pare che Huelva sia, o fosse in quegli anni, il covo della malavita: scippi, furti, rapine, spaccate di macchine erano all'ordine del giorno: la Guardia Civil aveva tutta una serie di moduli in tutte le lingue possibili e immaginabili per le denunce di questi reati. Peccato non averlo saputo prima...
Fatto questo ripartiamo: e chi si fidava più a lasciare in giro la macchina! Quindi alternandoci alla guida io e mia figlia, fermandoci solo per mangiare (tenendo la macchina ben in vista però) e per fare benzina abbiamo fatto una tirata sola fino a Milano (circa 2300 chilometri). Ci abbiamo messo una trentina di ore, e siamo arrivati a casa distrutti. Messa la macchina nel box, e chiusolo bene, ci siamo fiondati a letto per una dormita di almeno dodici ore!
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MessaggioInviato: 30 Giu 2010 09:43    Oggetto: Rispondi citando

Si potrebbe intitolare “frutta e verdura”, perché è proprio di quelle che intendo parlare oggi. Con quelle ci divertivamo, anche magari avendo giocattoli o svaghi di altro tipo, ma per noi bambini era più divertente inventarci qualcosa, arrangiarci con quello che trovavamo in giro. Parlo, naturalmente, degli anni subito dopo il 1940, quando la guerra ancora non ci aveva toccato direttamente.
Una cosa che oggi sarebbe assolutamente impensabile era il “pensierino”. Ma in che cosa consisteva? Semplice, quando arrivava la sua stagione si incominciava a mangiare la verdura, o la frutta, che in quella stagione maturava. Quindi neanche parlarne di mangiare le fragole a maggio: le fragole maturavano (e per quanto ne so io continuano a maturare, almeno dalle nostre parti) a Luglio-Agosto. Quando per la prima volta nell'anno, arrivavano sulla tavola, accolte con grandi feste e schiamazzi da noi bambini, si esprimeva il “pensierino”. Era l'espressione di un desiderio, una richiesta che si sperava che si avverasse e che doveva rigorosamente essere solo pensata, non si poteva dire ad alta voce, sotto pena del mancato avveramento della stessa. Per esempio potevi chiedere, solo mentalmente però, un giocattolo nuovo, una bicicletta, che ti passasse il raffreddore o qualsiasi altra cosa. E' ovvio che mica sempre i desideri venivano esauditi...
Però era divertente per noi aspettare l'arrivo di una verdura o una frutta, sbirciare nella sporta della spesa della mamma per preparare in anticipo il “pensierino”. La sporta era una borsa, in genere di pelle, nella quale ogni massaia riponeva la roba che aveva acquistato, non esistendo ancora i sacchetti di plastica. Quella di mia mamma era a losanghe, una rosso molto scuro e una nera. Chissà che fine avrà fatto, sostituita poi dalle borse di rete, in cotone credo, e successivamente in nylon.
Ma il divertimento maggiore era quando veniva la stagione delle albicocche: conservavamo il nocciolo che poi avrebbe subito un trattamento particolare. Tutte le volte che si andava da qualche parte con il nostro bravo nocciolo di albicocca in tasca strusciavamo il nocciolo contro il muro. In pratica si limavano le due facce fino a far comparire un piccolo buchino su ognuna delle stesse. Poi, con uno spillo o altro aggeggio simile si estraeva un pezzetto alla volta di quella parte bianca interna, che ci dicevano che fosse velenosissima.
Fatto il lavoro, che occupava anche diversi giorni, si era in possesso di un magnifico fischietto. Lo si teneva in bocca, fra i denti e le labbra, e soffiando o aspirando in un certo modo si riuscivano ad ottenere dei sibili che ci riempivano di orgoglio.
Un altro gioco, divertentissimo secondo noi, si poteva fare in inverno, la stagione degli aranci e dei mandarini. Sbucciandoli cercavamo di infilarci in tasca, senza farlo notare dai genitori, qualche pezzo di buccia. Poi, quando andavamo a giocare con i nostri amici in strada era una battaglia continua: ognuno tirava fuori il suo pezzo di buccia e cercava di sprizzarlo negli occhi dei compagni. Questo provocava al compagno, se colpito in pieno cosa che capitava molto raramente, un modesto e passeggero bruciore agli occhi, che lo metteva fuori gioco per un paio di minuti. Giusto il tempo per fare un paio di capriole per festeggiare la riuscita dell'attacco.
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MessaggioInviato: 17 Lug 2010 10:25    Oggetto: Rispondi citando

Mi è venuto una specie di flash: un ricordo che è riapparso all'improvviso senza nessun motivo apparente. A Milano, alla fine degli anni '40, primissimi anni '50 poteva capitare ancora ancora di vedere i cosiddetti “artisti di strada”. I più comuni erano i cantastorie, un gruppetto di tre o quattro persone che suonavano e cantavano dei motivi popolari. Generalmente c'era una donna non più giovanissima ma ancora dotata di una bella voce che cantava, e gli altri l'accompagnavano con la fisarmonica e uno strumento a percussione. Qualche volta capitava che ci fosse l'uomo-orchestra: cioè quello strano individuo che aveva sulla schiena una grancassa che suonava muovendo il mazzuolo con un piede, un armonica a bocca davanti tenuta da una strana intelaiatura e non ricordo più quali altri strumenti nelle mani.
Qualcosa di simile a questo, insomma.



Ricordo di aver visto gli ultimi cantastorie alla fine anni '50 o primissimi anni '60 in piazzale Baracca.
Era una cosa caratteristica, la gente faceva circolo intorno a loro, ascoltava le canzoni, qualche volta lasciava un obolo, qualche volta comperava per poco un foglio con il testo delle canzoni. In quegli anni la televisione era considerata ancora una “americanata”, e anche la radio era privilegio di pochi (sto parlando degli anni subito dopo la fine della guerra). E c'era poi il vantaggio che potevi richiedere una particolare canzone, almeno fra quelle che erano in repertorio ai cantastorie. Un po' come succedeva negli anni '60 con le prime radio libere.
Intorno al 1946/7 si poteva qualche volta trovare qualche elemento ancora più caratteristico. Avete presente Zampanò di quel meraviglioso film che era “La Strada”?
Proprio lui: stazionava di solito all'angolo fra la Via Larga e la Via Albricci: ricordiamo che era da poco finita la guerra e che quelle vie erano in condizioni ben diverse da quelle attuali: c'erano macerie, strade dissestate, nessun tram.
Questo, chiamiamolo “artista di strada” nelle sue esibizioni stava sempre a torso nudo, anche in inverno, e in quegli anni in inverno a Milano faceva veramente freddo. Si avvolgeva, come Zampanò nel film, una catena intorno al petto, la chiudeva con un gancio e anche lui si metteva una pezzuola sotto al gancio dicendo che lo faceva per non impressionarci con il sangue che fosse uscito. Il film “La Strada” è del 1954, mentre quell'artista del quale parlo io sarà stato al massimo del 1949/1950. Zampanò ha copiato da lui.
Non era l'unico “esercizio” che faceva: sempre per impressionare gli spettatori, sperando di ottenere più facilmente un obolo, si tagliuzzava un braccio con una lametta sporca di terra, poi si passava sul braccio stesso uno straccio infuocato. Sosteneva che il fuoco era il migliore disinfettante esistente e, in effetti, non sembrava che quei tagli con materiale sporco che si faceva gli avessero provocato danni.
C'era poi un altra esibizione, questa probabilmente più spettacolare ma anche più dolorosa e che non veniva eseguita spesso. Come ho già detto le strade erano dissestate e in fase di rifacimento, quindi c'erano accatastate le cordonature dei marciapiedi in attesa di essere collocate in opera al rifacimento della strada. A Milano le cordonature sono in granito, in blocchi di circa 1 metro per cm. 25 e alte poco meno di venti. A occhio e croce peseranno almeno mezzo quintale ciascuna. Si sdraiava per terra, a pancia sotto, si faceva appoggiare sulla schiena che teneva arcuata una di queste cordonature e poi uno spettatore, con una grossa mazza spaccava la pietra a mazzate. L'effetto era devastante e era difficile non dare qualcosa per lo “spettacolo”.
Ripeto, tutto questo accadeva in quello che oggi è uno dei centri nevralgici della vita milanese. Sembra impossibile, vero?[/url]
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MessaggioInviato: 17 Lug 2010 11:52    Oggetto: Rispondi citando

Ormai nemmeno i vecchi di oggi sono piu' i bambini di una volta
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MessaggioInviato: 28 Lug 2010 15:14    Oggetto: Rispondi citando

Questi non sono ricordi del nonno: andiamo parecchio più indietro. Questa è una foto della mia bisnonna, della quale purtroppo non conosco il nome, mia madre l'ha sempre chiamata "nonna" e io non le ho mai chiesto di dirmelo. La fotografia dovrebbe risalire al primo decennio del secolo scorso o alla fine dell'Ottocento. Ho cercato notizie su quel fotografo Ettore Fabretti di Macerata, ma, naturalmente non ho trovato niente o quasi, è passato troppo tempo. Si vede chiaramente quale era l'abbigliamento delle signore di un certo livello in quegli anni, anche se si fa fatica a capire come facessero a muoversi con tutta quella roba addosso.

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MessaggioInviato: 29 Lug 2010 16:33    Oggetto: Rispondi citando

Oggi le date sono abbastanza precise, merito di San Google oltre che dei miei ricordi. Quando la guerra non era ancora finita e l'Italia era divisa in due (1943), Aldo Farinelli e Aldo Leoni, rispettivamente dirigente e tecnico della Siata (Società Italiana Applicazioni Tecniche Auto-Aviatorie) di Torino, ebbero un'idea vincente.
Intuirono che quando la guerra fosse finita ci sarebbe stato un grosso problema di mobilità e che la gente avrebbe avuto la necessità di spostarsi molto più frequentemente che in passato, ma che nello stesso tempo non avrebbe avuto i soldi necessari per comperare un adeguato mezzo di trasporto.
Gli operai, gli impiegati avevano spesso una bicicletta, anche se non tutti: ricordate il film “Ladri di biciclette”? Ecco, si poteva partire da lì: applicare a una bicicletta già esistente un marchingegno che le permettesse con poca spesa di percorrere un numero di chilometri molto superiore a quelli che si sarebbero potuti fare semplicemente pedalando. Bisognava che fosse semplice da applicare alla bici, che consumasse poco, che fosse leggero e che, soprattutto, fosse facile da usare.
Sviluppando quelle idee nacque il “Cucciolo”. Qualcuno fra i meno giovani forse lo ricorderà, per gli altri metto una foto: questo era già un po' da “ricchi”, perché la bicicletta era una Wolsit e aveva la forcella anteriore elastica, una rarità per quei tempi (1947). Il motore era di 48 cc. a quattro tempi, il consumo veramente irrisorio: con un litro faceva circa cento chilometri e addirittura aveva due marce. Originale il sistema per cambiare: con il pedale sinistro della bicicletta in avanti entrava la prima, con il pedale destro la seconda e se i pedali fossero stati in verticale andava in folle. La velocità poteva arrivare a 35 Kmh.





il peso del motorino era di circa 7 chili. Veniva venduto in “scatola di montaggio”, si direbbe oggi: un qualsiasi artigiano ciclista era in grado di applicarlo ad una normale bicicletta.
L'unico difetto, se così si può chiamare, era il sistema di trasmissione del moto alla ruota: avveniva mediante un rullo che andava a contatto con il copertone della ruota posteriore, provocando una veloce usura dello stesso. Infatti dopo poco tempo vennero in uso dei copertoni rinforzati, proprio per questo uso specifico. Nella foto si vede chiaramente la ruota posteriore tenuta alzata da terra da una specie di treppiede. Il ciclista infatti per avviare il motorino dava qualche pedalata a vuoto, cioè con la ruota che non toccava terra, poi quando il motore fosse partito, mediante una leva avvicinava il rullo al copertone intanto che dava una spinta in avanti, in modo da far scattare all'indietro il treppiede. Quindi poteva partire regolarmente.

Il discorso continuerà: per oggi basta.
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MessaggioInviato: 04 Ago 2010 13:19    Oggetto: Rispondi citando

La Siata aveva avuto l'idea: fin dal 26 Luglio 1945 aveva iniziato il lancio del modello. Però non aveva i mezzi tecnici per una produzione di massa (il nome voleva dire Società Italiana Applicazioni Tecniche Auto-Aviatorie) e quindi per la produzione di massa si rivolse alla Ducati. Anche la Ducati però non era specializzata nel campo motociclistico, lo diventerà presto però, in quanto la sua attività era rivolta al campo radiofonico, si chiamava infatti Società Scientifica Radio Brevetti Ducati. Visto il grande successo del modello, successo favorito anche dalla nota canzoncina della pubblicità * divenne naturale preparare dei telai più idonei di quello delle comuni biciclette, con forcelle molleggiate, ruote più idonee a sopportare l'usura provocata dal rullo, insomma: un qualcosa che si avvicinasse di più alla motocicletta. Ecco un paio di modelli. Confrontateli con il primissimo tipo, montato su una normale bicicletta.



Un concorrente del Cucciolo era stato il Mosquito: più leggero, più compatto. Era a due tempi, di circa 38 cc di cilindrata. Consumava un po' di più, ma, al contrario del Cucciolo permetteva l'utilizzo del mezzo anche come semplice bicicletta ed era di più semplice montaggio. Era prodotto dalla Garelli. Nel 1952 uno di questi Mosquito superò una prova di impiego continuativo, marciando per 55 giorni e altrettante notti ad una media di 30 Kmh.




Ho un ricordo di quegli anni, o forse poco dopo: sarà stato il 1950 o 1951 o pressappoco: io e un mio amico eravamo in rapporti di quasi-amicizia con uno che aveva una bottega di riparazioni ciclistiche. Questi era riuscito, non so come, a mettere le mani su un motore un po' diverso: aveva la trazione a catena e non a rullo. L'aveva montato su un telaio e aveva affidato a noi il compito del collaudo. Non ci sembrava vero: poter scorrazzare gratuitamente su quella specie di mini-moto!!
Però il collaudo era durato poco: qualche mezz'oretta divisa equamente fra me e il mio amico, comunque meglio di niente... Peccato che il fissaggio del pignone alla ruota fosse troppo fragile per la potenza del motorino e quindi durante i nostri collaudi succedeva che si rompesse il collegamento. Quindi a piedi dal ciclista che tentava una nuova soluzione.

* Se vuoi venir con me... Chi volesse risentirla può trovarla qui, cantata da Giorgio Consolini, Carla Boni e Gino Latilla.



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MessaggioInviato: 20 Ago 2010 18:45    Oggetto: Rispondi citando

Ne avevo già parlato in un post precedente, ma non lo trovo più. Una delle prime t.ruffe nel dopoguerra è stata quella di un'automobile, chiamata "Volpe" che era stata reclamizzata come quella che avrebbe motorizzato gli italiani. Mi ero basato sulla mia memoria e su quello che avevo visto esposto in un negozio in via Vincenzo Monti, ma adesso ho trovato un articolo che qui linko e che conferma i miei ricordi.

Citazione:
L’immediato dopoguerra italiano era pervaso, almeno dal punto di vista dei trasporti, da un genuino, ingenuo e - a volte ingiustificato - ottimismo nei confronti di tutto ciò che poteva rappresentare o almeno sembrare una innovazione e una comodità in più per spostarsi. Con l’entusiasmo di una nazione che usciva da una guerra disastrosa, l’Italia dell’automobile tentava di rialzare la testa, sostenuta inizialmente dalle più economiche due ruote: il Garelli Mosquito motorizzava le biciclette, mentre Piaggio presentava nel 1946 la mitica Vespa. Alla motorizzazione di massa, ancora da creare, la nostra industria proponeva quindi mezzi semplici, economici, robusti e utili, copiando un po’ ciò che già era stato ideato prima della guerra (in Italia ma anche in America, Inghilterra e Germania) e un po’ proponendo progetti originali. Oltre alla Fiat Topolino e ai vari motocicli super-economici, la nostra industria non offriva molto alla massa di italiani desiderosi di muoversi in libertà e autonomia, di tornare insomma ad una vita normale e migliore senza spendere cifre impossibili per l’acquisto e la manutenzione dei mezzi. In questo clima nasce la curiosa ALCA Volpe, una microvettura pensata appunto per i desideri di milioni di italiani, per la prima volta alle prese con l’acquisto di un’auto. Presentata nel 1947 dalla neonata società Anonima Lombarda Cabotaggio Aereo (ALCA), la Volpe ha in realtà ben poco di una automobile come la concepiamo oggi. Durante una spettacolare presentazione fatta in un teatro romano il 30 marzo 1947, con la partecipazione dell’allora famosa compagnia del comico Erminio Macario, la Volpe viene pubblicizzata come la scelta ideale per la mobilità del dopoguerra italiano. La vetturetta scoperta a due posti è mossa da un motore bicilindrico a due tempi di 124 cc (sembrerebbe sviluppato dall’ing. Gioachino Colombo, famoso per i primi motori Ferrari) e 6 cavalli a 5.000 giri, piazzato posteriormente e in grado di spingere teoricamente la Volpe a 75 km/h di velocità massima. Dopo soli 6 esemplari prodotti la Volpe sparì, come la stessa ditta produttrice ALCA, che nel 1948 fu indagata per bancarotta fraudolenta dopo aver intascato gli acconti dei clienti che avevano ordinato la microvettura (circa 300 milioni di lire in totale). Nella stessa strategia commerciale di lancio si pone l’iscrizione di cinque ALCA Volpe alla prima Mille Miglia del dopoguerra, quella del ‘47, tre delle quali allestite in una fantomatica versione turbocompressa, priva di capote e dotate di coda aerodinamica arrotondata con poggiatesta integrato. Le cinque vetture non si presentarono mai alla partenza. Nella grossa truffa della ”Volpe mai nata” è rimasta coinvolta anche la spagnola Gemicar Internacional Auto S.L. di Madrid, che nel ‘47 decide di costruire su licenza la Hispano Volpe, versione della microcar italiana per il mercato iberico, Portogallo, Marocco, America latina e colonie spagnole. Come è facile intuire, nessuno stabilimento madrileno ha mai sfornato alcuna Hispano Volpe. I pochi esemplari sopravvissuti di ALCA Volpe si trovano oggi in musei o collezioni private, muta testimonianza di un sogno che ha illuso e deluso molti italiani, uno dei primi pasticci nell’Italia del dopoguerra. La cosa che lascia l’amaro in bocca è che la Volpe abbia per certi versi anticipato e prefigurato alcune delle soluzioni super-economiche che sarebbero poi state adottate su microcar di un certo successo commercializzate quasi dieci anni dopo: in primis la la Kleinschnittger F125, poi la Iso Isetta, la Messerchmitt Kabinenroller (Mival in Italia), la Brütsch Mopetta e la Glas Goggomobil. (Omni Auto)

C'è anche una fotografia della Volpe, un auto che mi ricorda molto quella di Topolino o di Paperino nei fumetti.
C'è da allibire pensando alle dimensioni della t.ruffa, TRECENTO milioni di lire nel 1947, così a occhio direi che potrebbero essere circa cinque milioni di Euro ai valori attuali, cioè una decina di miliardi di lire. Ho trovato solo un riferimento agli stipendi medi nel 1951. Un operaio in Italia guadagnava poco più di 20.000 lire, un bracciante 13.000 lire (al nord) e nemmeno 4.000 lire (al sud). Tra il 1947 e il 1951 c'è stata un'inflazione che, in base alle tabelle che ho trovato per i coefficienti di rivalutazione delle lira (21 nel 1947 e 31 nel 1951) si può valutare intorno al 40-50%
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MessaggioInviato: 04 Set 2010 11:07    Oggetto: Rispondi citando

Le AMLire, chi se le ricorda? Per i più giovani metto qualche immagine.


Erano una moneta di occupazione, stampata dagli americani anche prima dello sbarco in Sicilia e messa in circolazione a sbarco avvenuto, appunto dal 10 Luglio 1943. Con questa moneta i soldati potevano acquistare qualsiasi merce presso i negozi locali. C'era una parità, teorica più che altro, Un dollaro valeva cento AM Lire e una AM Lira valeva una normale Lira italiana. Non credo però che qualcuno, a parte forse i soldati americani, sia mai riuscito a farsi dare un dollaro in cambio di cento AM Lire. Naturalmente questa notevole immissione di carta moneta sul mercato favorì la forte inflazione che già era stata innescata dalle spese di guerra. In effetti, fra il 1943 e 1944 la lira perse oltre i tre quarti del suo valore. A titolo di esempio il Corriere della Sera costava 30 centesimi nel 1941, 50 nel 1944, una lira nell'Aprile 1945, tre lire nell'agosto 1945 e cinque lire nel 1946.
Le AM Lire erano stampate inizialmente in America, poi in Italia su carta derivante dagli stracci: naturalmente era carta di scarsa qualità e dopo pochi passaggi di mano diventavano logore. Rimasero in circolazione fino al Giugno 1950.
Furono anche oggetto di numerose falsificazioni, alcune molto sofisticate, altre invece estremamente rozze. Per esempio: la banconota da UNA AM Lira era simile per formato e colore a quella da 10 e allora alcuni furbetti aggiungevano a penna uno “zero” alla banconota logora da una lira, decuplicandone il valore. La falsificazione era evidentissima, ma qualcuno ci cascava lo stesso.
Anche in Francia successe un fenomeno simile, le AM France messe in circolazione dopo lo sbarco in Normandia. Ebbero però una vita molto breve e una circolazione ridotta a causa della avversione vivacemente espressa dal generale De Gaulle.
In Italia comparvero anche dei francobolli (e anche qui metto un'immagine) con la sovrascritta AMG FTT (Governo Militare Alleato- Libero Territorio Trieste).


Ne avevo alcuni quando da ragazzino facevo una collezione di francobolli molto modesta, e della quale non mi ricordo la fine. Probabilmente l'avrò regalata a qualcuno.
Oltre alla sovrascritta AMG FTT ce n'era un'altra: AMG VG, più rara, che riguardava la Venezia Giulia.
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MessaggioInviato: 04 Set 2010 13:10    Oggetto: Rispondi citando

Ne avevo sentito parlare da mio nonno...
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MessaggioInviato: 05 Set 2010 21:47    Oggetto: Rispondi citando

Grazie a mio padre, ne ho anche qualcuna Smile
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MessaggioInviato: 13 Set 2010 13:40    Oggetto: Rispondi citando

Oggi è Lunedì 13 Settembre e riaprono le scuole. Centinaia di migliaia di bambini e ragazzi incominciano un nuovo anno scolastico. Non conosco come si svolge oggi la cerimonia del primo giorno: i miei figli è un bel po' di tempo che hanno finito (la più giovane ha quasi quarant'anni). Immagino delle cose molto tecnologiche, un computer che gestisce il tutto, le classi formate fin dal primo minuto e l'orario definito delle lezioni in atto fin al primo giorno: forse non è vero, ma mi piacerebbe che fosse così.
Quando frequentavo io naturalmente la gestione era tutta manuale. Il primo di Ottobre era la data classica di inizio delle lezioni, era il giorno di San Remigio e quindi chi iniziava la scuola in quel giorno era chiamato “remigino”.
Ho il vago ricordo del primo giorno alla scuola media: eravamo un'infinità di bambini stipati in un cortile. Il preside, o forse era un segretario, rivolse alcune parole di benvenuto che non mi fecero nessun effetto, terrorizzato come ero dal cambiamento dal maestro delle elementari ai diversi professori della scuola media. Incominciò poi un appello: i bambini chiamati dovevano andare nella classe Prima A, poi un altro appello per la Prima B e così via. Ogni classe così formata veniva guidata dal professore di Lettere verso quella che avrebbe dovuto essere la propria aula per tutto l'anno. Invece ogni tanto si cambiava e alla fine, se qualcuno fosse stato assente il giorno del cambiamento, non sarebbe più riuscito a ritrovare la propria classe senza l'aiuto del bidello. E poi l'orario delle lezioni era “provvisorio”. Questo vuol dire che invece delle classiche cinque ore di lezioni se ne facevano di solito soltanto tre fino alla fine del mese, o fino ai primi di Novembre: poi arrivava finalmente l'orario definitivo che veniva dettato ai ragazzi per essere scritto sul diario (il ciclostile non aveva diritto di cittadinanza nelle scuole).
C'erano poi quasi obbligatoriamente per tutti, i "turni". Questo vuol dire che tre giorni alla settimana si andava al mattino e altri tre al pomeriggio, per poter utilizzare un'unica aula per due classi. Era a settimane alterne: in una settimana si andava al mattino dal Lunedì al Mercoledì, la settimana dopo al mattino si andava dal Giovedì al Sabato. Quindi capitava che si finisse la scuola al pomeriggio del Mercoledì, appena il tempo di tornare a casa e fare qualche compito e il mattino dopo si era di nuovo a scuola.
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MessaggioInviato: 22 Set 2010 15:09    Oggetto: Rispondi citando

Avevo accennato al fatto che si potrebbe quasi scrivere la storia d'Italia attraverso le banconote da mille lire: vediamo se è possibile.
La prima, almeno la prima che io ricordo è anche la più bella e la più grande, eccola:

[img]

Era chiamata “la grande M”, disegnata da Rinaldo Barbetti, artista senese, in circolazione dal 1897 e stampata sino al 1950. Fuori corso dal 1953. Era un vero “lenzuolo” di circa 25 centimetri. Pensate, in circolazione per oltre cinquant'anni con qualche piccola variante nel disegno! Il coefficiente di rivalutazione rispetto al 2003 è di circa 7093, quindi quel biglietto, al momento della prima emissione (1897) aveva un valore di sette/otto milioni (di lire, naturalmente). Una bella cifra da tenere nel portafoglio!! Queste me le ricordo bene, anche se, naturalmente, non ne possedevo nessuna...
Accanto a questa bellissima banconota circolò dal 1930 anche quella denominata “le regine del mare”. Era un po' più piccola della “grande M”. Ne ho un ricordo abbastanza confuso.

Le due dame al centro rappresentano le repubbliche marinare di Genova e Venezia.

[img]




Dal 1947/8, venne messa in circolazione la banconota chiamata anche “L'Italia ornata di perle” e il disegno nell'ovale di sinistra era ripreso da una delle tre grazie della Primavera di Botticelli: in proposito era circolata una delle tante “leggende metropolitane” che riguardano le banconote. Si diceva che erano in circolazione moltissime banconote false, ma falsificate così bene che era impossibile accorgersene. L'unica differenza con la banconota vera sarebbe stata la testa di Medusa che nella banconota falsa era di profilo anziché di faccia. Non era vero, naturalmente: non era la testa di Medusa, simbolo introdotto solo dal 1948 ma la "testina d'Italia", già in uso in precedenza. Infatti la prima emissione (1947) aveva la testina d'Italia e quelle successive la testa di Medusa
[img]




Nel ricercare le varie banconote mi sono imbattuto in questa che assolutamente non mi ricordavo di aver mai visto: infatti non è mai stata in circolazione. Avrebbe dovuto essere emessa nel 1945, ma il furto di alcuni cliché, cosa che avrebbe permesso una falsificazione perfetta, indusse le Autorità a distruggere l'intera emissione, dalla quale però vennero trafugati una decina di biglietti, oggi in mano a collezionisti
[img]



Per indicare che una cosa era falsa sentivo dire da ragazzo: “è falso come un tre lire” o anche “falso come un tre mila lire”. Però una banconota da tre mila (anzi: tre milla...) lire è esistita veramente ed era stata emessa dal Piemonte nel 1746
anche se era un qualcosa di mezzo fra una vera e propria banconota (era ammessa alla circolazione) e l'obbligazione (produceva un reddito)




[img]
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MessaggioInviato: 15 Ott 2010 18:48    Oggetto: Rispondi

Le scarpe: oggi è normale avere più di un paio di scarpe, qualche paio per il giorno, uno se si esce alla sera, qualche paio sportive, e poi (parlo di scarpe maschili) quelle per andare a giocare a calcetto eccetera. Una scarpa per ogni occasione, quindi. Non è stato sempre così, naturalmente, finita la guerra era già tanto riuscire ad avere un unico paio, che quando aveva la suola troppo consumata veniva portato dal calzolaio che le risuolava. Intanto, in attesa della riparazione, ti arrangiavi come potevi, riciclando per un paio di giorni un vecchio paio. Le scarpe vecchie, quelle sfondate e non più riparabili dal calzolaio, venivano religiosamente conservate e i ragazzi le usavano per andare a giocare al pallone o per usarle sui pedali di ferro delle biciclette da corsa. A proposito del pallone, poiché le scarpe erano spesso in condizioni disastrose, non era raro vedere ragazzi che giocavano al pallone con scarpe che avevano visto tempi molto migliori e che venivano tenute insieme – tomaia e suola - con un pezzo di spago. Avevamo anche provato ad usare per la bicicletta le scarpe da tennis, proprio quelle cantate da Jannacci, ma la suola in gomma molto sottile era fastidiosa sul pedale zigrinato.
Quando un paio era sfondato, lo si portava dal calzolaio che metteva una suola nuova e poi i “ferretti”, che peraltro spesso c'erano anche sulle scarpe nuove. Erano delle specie di mezzelune, in ferro o latta, che venivano inchiodate sulla punta e sul tacco della scarpa. Avevano, come è ovvio, lo scopo di ritardare il consumo della suola e venivano applicati alla scarpa mediante quei chiodini da calzolaio che venivano chiamati “semenza”. Facevano rumore, camminando: questo un po' ci infastidiva e un po' ci dava l'impressione di essere delle persone importanti: come i militari che cadenzavano il passo nelle parate. C'era un problema: dopo un po' che li usavi poteva capitare che uno dei chiodini che tenevano il ferretto si consumasse e saltasse via. Quindi il ferretto, tenuto solo da una parte poteva sventolare minacciosamente e, essendo consumato dallo strofinamento sull'asfalto diventava tagliente come una lama e sporgeva dalla suola, con il rischio di ferire. Provvedeva di solito il calzolaio che inchiodava un ferretto nuovo, leggermente spostato perché i chiodini non entrassero nei buchi precedenti con il rischio di non fare sufficiente presa.
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